Le origini poco
note di certe espressioni, di alcuni termini del - dialetto o parlata,
scegliete voi - romanesco. Quelle che usiamo ancora, in bilico tra
tradizione e modernità, ma di cui ignoriamo spesso i natali. Confusi dal
tempo o da eventi ormai - solo - tramandati.
“Già ch’a'mo fatto trenta, fa’mo trentuno”: a Roma sappiamo bene cosa
significa. Usiamo ancora questa espressione per indicare uno sforzo
supplementare che costa poco, vista l’entità di quello appena sostenuto.
Una frase pronunciata con stanchezza e indolenza capitolina, le cui
origini - neanche a dirlo - sono legate alla storia del Vaticano.
È il giugno del 1517 e Papa Leone X deve compilare una lista di nuovi
cardinali. Contro l’opinione di quasi tutta la Curia, vuole ampliare il
numero dei porporati. Delegare maggiormente e innovare la struttura
ecclesiastica. Se il Sacro Collegio fino ad allora aveva contato un
massimo di 24 cardinali, Leone X conferisce prima ben 12 titoli in una
volta sola, poi li estende addirittura a insigni appartenenti a nobili
casate romane.
Arriva a nominarne trenta (il limite che si era dato), ma - al
momento dell’investitura - un consigliere gli fa notare che è stato
tenuto erroneamente fuori dall’elenco un religioso piuttosto meritevole.
Leone X non si scompone e, il 1 luglio dello stesso anno, pronuncia la
storica frase: “Tanto è trenta che trentuno!”, poi diventata attraverso
il filtro del popolino, la famosa espressione.
Fonte: 06Blog